
È difficile scrivere un articolo sul 25 novembre, perché sulla violenza contro le donne è già stato detto molto, troppo. Forse tutto.
Eppure le parole ancora fanno fatica a scalfire la robusta corteccia di convinzioni di cui si nutre la nostra cultura.
Accogliamo questo 25 novembre con la notizia di un triplice omicidio a Roma. Le vittime? Tre donne. Tre donne coinvolte nella tratta di schiave del sesso.
Capite quindi che è difficile trovare le parole per raccontare cos’è il 25 novembre, cosa dovrebbe essere, e perché esiste.
Qualcuno potrebbe ribattere che le parole, ripetute continuamente, possono essere una sorta di goccia cinese e che, alla fine, penetrano nella testa delle persone, fino a cambiarla.
Ecco allora che è importante che le parole non si usino solo per il 25 novembre. Che articoli o manifestazioni fatte in questa occasione sono in realtà solo dei simboli. Un modo per celebrare un avvenimento, farsi vedere e sentire preparati su un tema tanto complesso quanto vasto. Per poi uscire dai riflettori e continuare a non chiedersi “Perché esiste un 25 novembre?”
Questa è l’epoca dei simboli, e ne abbiamo per ogni cosa. Le giornate nazionali, in primis. Le panchine rosse, le scarpette rosse. Tutti segni che sfoggiamo, di cui parliamo, attorno ai quali creiamo eventi, fino a farli diventare quasi dei miti.
Ma poi restano simboli se non li riempiamo di senso. E i miti, come ben sappiamo, sono storie che non hanno niente a che fare con la realtà.
Ecco allora che la mia frase iniziale può evolversi in qualcosa che dà spazio ad una riflessione più ampia: “le parole, da sole, ancora fanno fatica a scalfire la robusta corteccia di convinzioni”.
E quel “da sole” apre ad un senso molto più profondo. Cosa possiamo fare affinché le parole, le panchine, le scarpette e le iniziative per il 25 novembre non restino solo dei simboli, ma diventino frecce da scoccare per raggiungere un obiettivo concreto?
Questa giornata è stata istituita per sensibilizzare sulla violenza di genere, per educare la società ad una più ampia comprensione, ad un più profondo rispetto, e ad una più difficile empatia verso l’altro.
La violenza contro le donne è un fenomeno che riguarda tutti: le donne, gli uomini, le istituzioni, la comunità in ogni sua declinazione.
Siamo tutti chiamati, nella nostra individualità e nel vivere con l’altro, ad educare all’ascolto. Ad ascoltarci e ascoltare l’altro, e a riconoscerlo, anche e soprattutto quando è diverso da noi.
Sarebbe interessante quindi che le parole siano utilizzate nell’ambito di un vero e proprio progetto di educazione.
Un progetto che abbia un preciso punto di partenza: riconoscere che la violenza di genere è il prodotto, patologico, di una società che non sa prendersi cura né di sé né dell’altro nella propria complessità.
E un punto di arrivo altrettanto chiaro: abbattere le barriere, prima emotive, poi comunicative, di cui è piena la nostra società.
Un progetto educativo che coinvolga le famiglie, le scuole, le associazioni, i luoghi di lavoro e di svago che quotidianamente frequentiamo.
Perché non basta più lo slogan “Stop alla violenza contro le donne”. Occorre trovare gli strumenti affinché la violenza non sia più considerata come un modo normale di comportarsi. Il naturale punto di arrivo di determinate situazioni.
Educare all’ascolto, di sé e dell’altro. Riconoscere le proprie emozioni senza paura. Saperle comunicare.
E come si può ottenere tutto questo?
Sono tante le iniziative utili in tal senso: introdurre nelle scuole l’educazione all’emotività e l’educazione sessuale, per esempio. Imparare a parlare di tutto ciò che, fino ad oggi, è sempre stato un tabù. Perché la violenza si annida proprio lì dove non si parla. Nei giudizi. Nelle critiche. Nelle punizioni. Cose che da sempre fanno parte della nostra cultura familiare e sociale.
Fare attività in cui si educhi alla collaborazione, anziché alla competizione.
Creare una rete di supporto per gli adolescenti, le persone, le famiglie in difficoltà. Ma non solo supporto economico; parlo di sostegno psicologico, per renderci consapevoli dei nostri limiti, accettarli e apprezzarci nel nostro essere umani, quindi fragili.
Per fare ciò, e tanto altro, è necessario senz’altro agire dall’alto. Ma ognuno, nel proprio piccolo, ha il potere di agire e influenzare chi gli sta intorno. Ognuno, nel proprio essere unico, è responsabile delle proprie emozioni, e del modo in cui queste influenzano il proprio agire. E questo è un potere enorme, che troppo spesso sottovalutiamo.
E allora è corretto e fondamentale chiederci: quali sono i gesti quotidiani, intimi, familiari e comunitari con cui creare legami rispettosi, in cui le difficoltà e i conflitti si risolvano con l’ascolto, la comunicazione e la collaborazione?
Chiederci: che senso ha per me il 25 novembre? E in che modo, con le mie peculiarità, posso contribuire a silenziare la violenza, e a dare voce alle emozioni?
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